Le pagine che si leggono in questo libro raccontano le vicende di quei bambini e ragazzi di strada chiamati «sciuscià». Non è quindi in senso stretto la storia dei lustrascarpe che nei primi anni del dopoguerra popolano le grandi città italiane, in particolare Roma e Napoli, invase dai militari alleati a cui di fatto si deve il nome. Non è neanche la storia del film di Vittorio De Sica, vincitore del premio Oscar come migliore pellicola straniera nel 1948, che ha reso la parola «sciuscià» famosa in tutto il mondo. Eppure questo libro è anche la storia dei lustrascarpe e del film di De Sica, per tre motivi. Il primo è politico e culturale. L’intreccio di creatività e avversità di cui parla la motivazione dell’Oscar al film sembra dipingere il tradizionale stereotipo dell’italiano che se la cava in qualche modo, si arrangia e alla fine o sparisce nel gorgo luciferino della miseria o, baciato dalla fortuna, conquista il successo. Il secondo motivo è che «sciuscià» è una sineddoche. I lustrascarpe sono la parte visibile di una massa di bambini e ragazzi orfani, poveri e profughi che vivono e sopravvivono nelle strade delle città italiane del dopoguerra. Il terzo motivo è il valore per cosí dire universale, nel tempo e nello spazio, dello sciuscià. La sua figura di bambino è quella che aggruma l’idea di tutte le infanzie vissute ai margini della società nel corso del Novecento: vittime dei cambiamenti che investono le comunità dopo guerre e catastrofi oppure espressioni icastiche dell’umanità dimenticata e offesa a ogni latitudine.
Sarà presente l’autore - Bruno Maida
Interviene - Bruno Ziglioli