Storia |
L'origine della biblioteca farfense è da collocarsi, con ogni probabilità, già ai primordi della storia abbaziale (Sec. V-VI), in analogia ad altre istituzioni similari. Notizie certe, in ogni modo, si hanno dalla seconda metà del sec. VIII. Quando l'abate Alano, come ricorda esplicitamente il Chronicon Pharphense, "multos etiam mirifice exaravit codices". Dell'abbondante produzione di Alano (m. 769) rimane purtroppo soltanto un Omiliario, però estremamente significativo ai nostri fini, in quanto l'abbondanza di citazioni patristiche in esso contenute fa chiaramente presumere l'esistenza di una biblioteca monastica di rilevanti proporzioni, relativamente al periodo storico considerato.
Del resto lo scriptorium farfense, in crescente attività, alimentava la biblioteca con l'opera degli amanuensi e, a sua volta, moltiplicava lo stesso Omiliario di Alano che veniva adottato dai monasteri dell'Italia centrale e settentrionale, raggiungendo anche quelli della Francia e della Germania.
Gli abati successivi incrementarono sempre più la biblioteca. Il sabino Probato aveva addirittura ottenuto, già dall'anno 775, un privilegio da Carlo Magno nel quale, tra le cose più preziose protette dall'autorità imperiale, erano nominati i codici della biblioteca, che nessuno, neppure il Vescovo, poteva sottrarre all'Abbazia. Veniva così garantita rigorosamente l'integrità della raccolta libraria del monastero.
Agli inizi del IX secolo è ricordato dalla Constructio Pharphensis l'abate Benedetto (m. 815) come sagacissimus nell'arricchire di codici il patrimonio monastico. Ma è durante l’XI secolo che l'abbazia raggiunge il suo primo grande splendore, e con essa la biblioteca.
Pietro I (abate dall'890 al 919) fu talmente attivo nel procurare nuovi codici che l'autore della Destructio Pharphensis l'abate Ugo, che scrive circa un secolo dopo rinuncia ad enumerare i codici acquisiti: " ... librorum volumina quanta et qualia ... longum est narrare."
Ma Pietro è anche vittima di tanta grandezza. Dopo sette anni di resistenza agli assalti dei saraceni, evidentemente attratti dalla fama dei tesori dell'abbazia, nell'anno 898 Pietro è costretto ad evacuare il monastero. I monaci vengono divisi in tre gruppi e fuggono verso destinazioni diverse; il gruppo condotto dallo stesso abate si rifugia nelle Marche sul Monte Matenano, in un castello che prenderà poi il nome di S. Vittoria. E' questo drappello di monaci che porta in salvo i libri più preziosi della biblioteca, mentre il resto scomparirà nel rogo dell'incendio che distruggerà il monastero durante l'occupazione saracena.
Alla morte di Pietro (919), un monaco usurpatore di nome Ildebrando si impossessa del titolo di S. Vittoria e, per sostenere le spese della propria corte e dell'esercito abbaziale, non esita a saccheggiare i codici così fortunosamente salvati dal predecessore: naturalmente i primi ad essere venduti sono quelli più preziosi anche dal punto di vista esteriore, rilegati in oro e argento. Spariscono così un Livio, due copie dell'Antifonario Gregoriano, la Historia Longobardorum di Paolo Diacono, il De Civitate Dei ed altre opere di S. Agostino, il diffuso poemetto eroicomico Cena Cipriani, ed altri.
Successivamente, sempre nel X secolo, col ritorno a Farfa dei monaci si cominciò a ricomporre la biblioteca nella sua sede. Tra gli acquisti viene particolarmente ricordato un libro, detto Comes, del valore di trenta soldi, per la cui acquisizione fu necessario il ricavato della vendita di ben trenta moggia di terreno. L'abate Leone, nominato da Giovanni XIII nel 965, riuscì anche a recuperare molti dei manoscritti trafugati o dispersi.
Ma la vera rinascita si ebbe con l'abate Ugo I, che, tra l'altro, introdusse a Farfa nel 999, sotto il pontificato di Silvestro II, la riforma cluniacense. Ugo fu un vero storico ed arricchì la biblioteca di molte sue opere. Sotto il suo governo lo scriptorium raggiunse la massima importanza, tanto che la maggior parte dei codici giunti fino a noi appartengono a questo periodo, nel quale si caratterizza anche con precisione una scrittura ben tipica, ben nota agli specialisti, la romanesca farfense, usata in tutte le opere di Gregorio da Catino (10621122).
Tra l'epoca di Ugo e quella di Gregorio non va dimenticata la figura dell'abate Almerico (m. 1047), di cui il Chronicon ricorda: " ... librorum volumina studiosissime auxit et artis grammaticae et Scripturae Divinae libros quadraginta duos maiores minoresque accumulare curavit."
Ma certamente la figura di Gregorio da Catino è quella più rappresentativa di questo periodo. Il Regesto, il Chronicon, il Largitorius, il Floriger sono le opere fondamentali dell'acme culturale di Farfa tra la seconda metà del secolo XI e la prima del XII. Del resto le fonti storiche sulle quali Gregorio si basa dimostrano da una parte la sua scelta accurata per evitare errori di storia e di cronologia, dall'altra il livello qualitativo del patrimonio librario della biblioteca farfense: la Cronaca di Isidoro di Siviglia, la Historia di Paolo Orosio, La Historia Romana e la Historia Longobardorum di Paolo Diacono, le Passioni dei martiri e gli Acta Sanctorum. A queste opere generali si aggiunga l'abbondanza delle citazioni patristiche, il compendio del Liber Pontificalis da lui redatto, la trascrizione delle Diversarum Sententiae Patrum e si avrà un'idea dei volumi a disposizione dello storico.
Non vanno poi dimenticati, sempre ai fini di una valutazione approssimativa della qualità del materiale presente a quell'epoca in biblioteca, alcuni documenti, forse di secondaria importanza per altri scopi, ma fondamentali per il nostro, quali le note dei libri dati in prestito ad altri monasteri o a dipendenze dell'abbazia, o l'elenco dei codici lasciati in eredità dall'abate Berardo, ma, soprattutto, la nota dei libri che all'inizio di una quaresima dell'XI secolo l'abate Armario assegnava singolarmente ai monaci in lettura, secondo la Regola benedettina: da questo elenco apprendiamo che venivano date in lettura non soltanto opere di carattere religioso, ma anche di argomento storico, che nella biblioteca esistevano spesso più copie di una data opera, e infine, che tutti gli autori più conosciuti nell'alto medioevo vi erano rappresentati, oltre a molti poco conosciuti o addirittura ignoti.
Con il passaggio da Abbazia Imperiale a dominio diretto della Curia romana dopo il Concordato di Worms e la conseguente nomina di abati commendatari, le sorti di Farfa nel XII secolo cominciano a declinare. Ne risente naturalmente anche la biblioteca: preziosi codici vengono venduti da abati poco scrupolosi, altri vengono sottratti, altri ancora vengono asportati da monaci che si rifugiano presso altri monasteri, come lo stesso Gregorio da Catino, che portò con sé molti libri e carte d'archivio nel monastero di S. Lorenzo in Picte.
Da quest'epoca comincia la dispersione del patrimonio librario, che proseguirà inesorabilmente nei secoli successivi, tanto che Bonifacio IX, probabilmente su istanza di qualche abate, in un privilegio del 22 dicembre 1400, proibiva l'asportazione a qualsiasi titolo delle "scritture" appartenenti al monastero e nominava suo nipote, il cardinale Francesco Tomacelli, abate commendatario per risollevare le sorti dell'abbazia. La "commenda" passò in seguito agli Orsini, ai Farnese, ai Barberini, ai Lante della Rovere, ma la biblioteca non ne trasse alcun giovamento. Nel 1567 l'Abbazia fu aggregata alla Congregazione Benedettina Cassinese.
Si ricomincia a parlare della biblioteca di Farfa nella relazione di un viaggio in Italia del febbraio 1685 di Jean Mabillon, pubblicato a Parigi nel 1724 sotto il titolo di Museum Italicum. Le notizie successive sono semplicemente disastrose: con la soppressione operata da Napoleone Bonaparte nel 1798, la dispersione fu quasi totale. Il Chronicon di Gregorio fu trasferito a Rieti nel 1810 a disposizione del sottoprefetto francese, ma fortunatamente, prima che il prezioso codice prendesse la via della Francia, fu recuperato e trasferito alla Biblioteca Vaticana, dov'è tutt'ora conservato.
Con una delibera dell'amministrazione francese fu stabilito che il ricavato dalla vendita di tutti i beni mobili ed immobili dell'abbazia servisse ad estinguere il debito che la Congregazione Cassinese aveva contratto con la S. Sede. I codici andarono alla Vaticana, i registri di amministrazione alla Congregazione ed i libri furono variamente venduti. Rimase aperto il monastero, ma soltanto per intercessione di Pio VII.
Nel 1861 il territorio di Farfa fu annesso allo Stato Italiano e tutti i beni del monastero furono confiscati in base alla legge Pepoli; tra questi, 2259 volumi e "14 fasci di carte manoscritte contenenti scritture antiche", come risulta dal verbale del 20 ottobre 1861, conservato nell'archivio del monastero. Biblioteca e archivio furono trasferiti nella sede del Comune di Fara Sabina.
Nel 1876, all'inaugurazione della Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele 11, 1750 volumi della biblioteca farfense furono incamerati insieme con quelli di altri 67 conventi soppressi oltre alla Biblioteca Maior dei Gesuiti.
Il materiale d'archivio (dal XVII al XIX secolo) fu sistemato nell'Archivio di Stato a Roma.
Il monastero rimase pressoché abbandonato per alcuni decenni. I pochi codici e libri rimasti furono trasferiti in un piccolo convento a Sanfiano presso Fara Sabina, precedentemente usato come soggiorno estivo dei monaci. Don Gregorio Palmieri, monaco benedettino di S. Paolo a Roma, ne redasse un indice che enumera circa 3.000 volumi. Ai primi del secolo XX un monaco di origine tedesca, Don Bruno Albers, particolarmente erudito nella storia ecclesiastica, si prese cura della biblioteca, riuscendo a recuperare molte carte d'archivio e provvedendo all'acquisto di molte opere. Lasciò poi una cospicua biblioteca personale di argomento storico-religioso in dono all'abbazia, materiale che recentemente è stato sistemato ed esposto.
Finalmente, quando dopo vari passaggi di proprietà l'avvocato Felice Vitale divenne proprietario di Farfa, un drappello di monaci di S. Paolo fu invitato a ritornare nell'abbazia. Nel 1920, avvenne il trasferimento.
Un colpo d'ala notevole per la ripresa si ebbe, dopo la prima Guerra Mondiale, grazie all'interessamento del Prof. Camillo Scaccia Scarafoni della Regia Soprintendenza Bibliografica di Roma: la biblioteca di Farfa entrò in possesso dei libri provenienti dalle biblioteche comunali di Fara Sabina, Civita Castellana e Nazzano, che erano state costituite nel 1870 con i fondi provenienti rispettivamente da conventi francescani di S. Francesco e Fara Sabina, S. Maria del Poggio e Soriano e S. Francesco a Nazzano, a loro tempo soppressi dalla stessa legge che aveva colpito Farfa.
Nei documenti di consegna risultano provenienti da Fara Sabina 1814 volumi, tra cui 21 sono indicati di particolare valore, e 14 incunaboli. Da Soriano il numero dei volumi fu di 4080, prevalentemente di carattere ascetico-religioso, con 10 incunaboli e cinque edizioni cinquecentine. Nazzano, infine, fornì nel 1936 un totale di 1639 volumi, molti dei quali deteriorati dall'umidità, com'è fatta esplicita menzione nel verbale di consegna. In questo fondo sono evidenziati due antifonari miniati del 1647, sei incunaboli ed un innario in pergamena del 1750.
In seguito, sempre per l'interessamento di Scaccia Scarafoni, furono trasferiti a Farfa i duplicati delle biblioteche universitarie di Genova e di Padova, oltre ad alcuni volumi già collocati presso vari ministeri, particolarmente quella dell'Educazione Nazionale (ora Pubblica Istruzione).
Nel frattempo la proprietà immobiliare di Farfa era passata al conte Volpi di Misurata, mentre l'avvocato Vitale aveva lasciato per testamento ai Benedettini la sua Biblioteca di argomento giuridico e letterario, consistente in 700 volumi. Una prima catalogazione sommaria fu effettuata nel 1943 dall'abate don Basilio Trifone, quando la Biblioteca era collocata nei corridoi del piano superiore dell'abbazia: in totale 10.300 volumi, un centinaio di riviste ed una cinquantina di miscellanee.
La biblioteca, insieme con altre dieci in Italia, fa ora parte della speciale categoria di Biblioteche annesse ai Monumenti Nazionali. L'inaugurazione ufficiale avvenne il 9 febbraio 1964. |
Patrimonio |
Il patrimonio manoscritto della Biblioteca assomma attualmente a circa 450 volumi (secc. X-XX), circa 200 dei quali di carattere archivistico; a questi si aggiungono circa 270 pergamene datate tra i secoli XII e XVIII. La raccolta include un gruppo di codici di sicura origine farfense, consistente in repertori liturgici e cronache del monastero prodotte fra i secoli XVII e XVIII o loro copie tardive; tra queste è la copia degli Annales sacri et imperialis Monasterii farfensis redatta dal monaco Gregorio Urbano negli anni 1643-46 per l'abate Gregorio Coppini1 e a lui dedicata (ms. AF.289) - una seconda copia dell'opera, sempre di mano del monaco ma di diversa destinazione, è conservata presso la Biblioteca Nazionale di Roma (ms. Farfense 31), interrotta come la prima alla morte del compilatore ma, a differenza di questa, parzialmente integrata con interventi successivi proseguiti fino al secolo XIX ineunte.
La biblioteca possiede inoltre 17 manoscritti medievali datati tra il secolo XI e il XV, dei quali l'unico ritenuto "autoctono" farfense è l'elegante salterio-innario-collettario decorato segnato AF. 281. Questo è sopravvissuto al furto avvenuto nel 1972, allorché all'abbazia ignoti sottrassero un piccolo gruppo di incunaboli e manoscritti medievali, fra cui la Summa magistri Goffridi super Decretales Gregorii IX e la Panormia di Ivo di Chartres oggi conservati anch'essi in biblioteca.
Il gruppo dei manoscritti medievali si arricchisce con i 7 protocolli notarili (segnature AG. 311-317) contenenti documenti rogati nei secoli XIV-XV, il cui esponente più noto alla comunità degli studiosi è il Regesto dell'abate Alardo (ms. AG.311), datato agli anni 1359-1375.
Ci sono inoltre i 50 frammenti pergamenacei (secc. XI-XVIII), tratti in parte dalle legature di codici farfensi restaurati e in parte di provenienza non nota, che sono stati esaminati recentemente dalla studiosa americana Susan Boynton e, peraltro, catalogati in seguito, in occasione della recente campagna di catalogazione promossa dall'Istituto Centrale per il Catalogo Unico e per le Informazioni bibliografiche (ICCU).
Ai secoli XV-XVIII appartengono i manoscritti ceduti a suo tempo dal Comune di Fara Sabina, che aveva raccolto i fondi dei conventi francescani di Nazzano, Civita Castellana e Soriano in seguito alla loro soppressione per poi donarli all'abbazia negli anni '30 del secolo scorso. Si tratta per lo più di manoscritti di argomento filosofico, teologico e spirituale.
Risalgono infine ai secoli XVIII-XIX (1727-1877) il gruppo di libri di messe (31) e libri mastri (4) provenienti dal convento di San Francesco di Nazzano e ai secoli XV-XVIII un nucleo di circa 25 cosiddetti "corali". |